Morte Morosini, prof. Alunni: lo sport è cambiato, devono cambiare anche le linee guida e la cultura

MORTE MOROSINI PROFESSOR ALUNNI CARDIOLOGO – Tuttosport ha interpellato il cardiologo Gianluca Alunni , in prima linea nel reparto Cardiologia 2 alle Molinette di Torino, all’avanguardia in Italia. Alunni, che è stato anche allenatore nelle giovanili della Juventus, aveva proposto un percorso di approfondimento degli accertamenti dal punto di vista cardiovascolare su tutti gli sportivi, e quelli di vertice in particolare.

Come può un atleta supercontrollato morire così, di colpo, senza possibilità di aiutarlo o salvarlo?
«Purtroppo possiamo soltanto restare nel campo delle ipotesi, bisogna attendere un’autopsia per avere, e non sempre si riesce, delle certezze. I due eventi sono legati soltanto dalla casualità, colpiscono perché sono ravvicinati, in campi sportivi peraltro differenti, ma anche perché la gente pensa che un atleta sia l’immagine della salute, un bronzo di Riace. Però questi casi devono sollevare l’attenzione di fronte a una necessità: bisogna che i dirigenti del calcio e dello sport, i medici sportivi e delle società, i cardiologi, ma anche gli psicologi, si mettano attorno a un tavolo e stabiliscano nuove linee guida pensando che tutto è in evoluzione, dai metodi di allenamento all’alimentazione, dalle indagini cliniche a ritmi agonistici, al numero di impegni sempre più stressanti, specialmente quando si gioca tanto e ci si allena poco costringendo il fisico a lavorare sempre sotto stress e con meno abitudine alla fatica. Non è un caso infatti se le morti avvengono durante gli impegni agonistici più che negli allenamenti, quando lo stress è altissimo e va a sommarsi a un substrato patologico. E’ necessario un osservatorio costante alla presenza di tutte le componenti del mondo sportivo».
Quali possono essere le cause della morte di Piermario Morosini?
«Solitamente l’80% di morti improvvise è legata all’aritmia, cioé alla fibrillazione ventricolare che può arrivare per vari motivi, l’altro 20% può essere di natura cerebrale, una emorragia. Nel primo caso il cuore comincia a pulsare a ritmi incontrollabili, arriva a 300 battiti e non lavora più: il defibrillatore è il primo intervento, prima arriva e lo si usa e, come si suol dire, più cuore salvi, più tempestivi i soccorsi e più probabilità ci sono. Nel secondo caso il cuore va invece in asistolia, non batte più, è piatto. In questo caso serve la prevenzione, ma per andare a individuare un aneurisma cerebrale che si può rompere bisogna rilevare prima dei sintomi e poi esaminare con Tac e Risonanza Magnetica, esami che su uno sportivo si fanno soltanto laddove esistano delle sintomatologie o delle necessità di approfondire gli accertamenti. Nelle aritmie ventricolari la causa è cardiovascolare: malattie alle coronarie come le occlusioni e toccano soggetti a familiarità, la cardiomiopatia ipertrofica che aumenta molto le pareti del cuore, la displasia aritmogena del ventricolo destro che porta il 23% delle morti improvvise».
Bisogna fare anche un discorso relativo all’ereditarietà?
«L’indagine sulla storia della famiglia è fondamentale non soltanto per gli sportivi. In episodi di questo genere quasi sempre esiste un accostamento all’ereditarietà anche se non è così scontato: per esempio, sovente dietro a una morte per infarto si possono nascondere altre problematiche che non verranno mai a conoscenza perché non si fanno autopsie su tutti… Una forma virale, una banale mononucleosi, a volte possono andare a danneggiare il cuore. Nel caso di episodi che possono far nascere il sospetto di una ereditarietà (come per la morte per infarto della mamma di Morosini, ndr) si dovrebbero approfondire le indagini, ma soprattutto diventa fondamentale la collaborazione dell’atleta: deve dire tutto al medico della società, dal dolorino al petto a strani segnali di affaticamento, ai mal di testa. Purtroppo fin da bambini gli atleti tendono a nascondere per paura di non giocare o di perdere il posto. Bisognerebbe un po’ cambiare la cultura, ma quando ero alla Juve l’attenzione dei medici era altissima, so che lo era anche in altre società».
Lei ha più volte affrontato il tema dello screening preventivo della salute di un atleta.
«Non è detto che un domani non diventi necessaria una risonanza magnetica per ogni atleta sottoposto a grandi stress… La diagnostica è in evoluzione, magari si riescono a contenere i costi. In ogni caso quello che non si può rischiare a meno che non ci siano dubbi forti o segnali ben precisi è sottoporre qualcuno a esami invasivi: primo perché hanno comunque un minimo rischio di mortalità, secondo perché non possiamo nemmeno creare dei finti malati, perché per esempio negli atleti le extrasistole ci sono, né creare ulteriori ansie o stress». L’aritmia per esempio si può accertare ma soltanto attraverso esami invasivi: «Si inserisce un elettrocatetere per via femorale o dal braccio per arrivare con un filo fino al cuore e dare degli impulsi elettrici che aiutano a capire se è soggetto alle aritmie che portano alla morte. Però questa è una fase successiva, approfondita di un percorso: dal punto di vista cardiovascolare un semplice ecg già toglie un bel numero di dubbi sul funzionamento elettrico del cuore, poi si passa all’elettrocardiogramma sotto sforzo. Mentre l’ecocardiogramma è la terza fase per verificare se esiste un problema sotto l’aspetto muscolare del cuore. Un esame importante per verificare se il cuore è più “spesso” o se il ventricolo destro si contrae di meno».
Esiste una frequenza per i controlli?
«E’ un tema più volte affrontato: lo screening su un giocatore, come si deve fare e ogni quanto tempo? la prima valutazione è quella del medico che lo segue. Il controllo più frequente che va fatto è quello dello stato di salute, perché l’atleta va osservato, nella sua stanchezza, nella sua concentrazione, nel suo livello di stress, e qui sono importanti gli psicologi per valutare la parte emotiva: sono i medici dello sport che devono osservare l’atleta e decidere dal punto di vista clinico: si parte dal ciclo di esami e poi si interviene con quelli cardiovascolari. Non ci sono tempi precisi, magari 3 mesi, 6 mesi, un anno, al di là di quei controlli già previsti nella tempistica sportiva. Però parlandone si trovano soluzioni e forse un metodo d’indagine più approfondito per tutti: dobbiamo arrivare a essere più critici nelle valutazioni, aumentare il livello degli esami. Anche se non arriveremo mai al 100% della certezza».

Matteo Bellan – www.calciomercatonews.com

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