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Premier League vs Serie A: ecco i 5 motivi per cui continuiamo a preferire il made in Italy


PREMIER LEAGUE SERIE A – Che cos’è rimasto oggi della Serie A? Se in questi ultimi anni avete trovato una risposta a questo interrogativo leggendo giornali o ascoltando commenti in giro per trasmissioni televisive da parte di certi guru calcistici, vi sarà senza dubbio venuta voglia di fare i bagagli, prenotare il primo volo verso l’Inghilterra e non tornare mai più in Italia. Perchè la Premier League non ha problemi, dicono, E’ la terra del calcio, dicono. Le partite divertono, dicono. Gli stadi sono pieni, dicono. Più in particolare va di moda esaltare tutto quello che è lontano dai confini della penisola italica e circondarlo di un’aura sacra pur, nella maggior parte dei casi, senza mai averlo vissuto. Poi poco importa se la faccia che viene proposta dai media è solo quella più lucente, il prodotto italiano sarà sempre e comunque peggiore di tutto il resto. Così funziona pure per il calcio. La nostra Serie A ha parecchi problemi, alcuni dei quali anche piuttosto seri. Ma siamo sicuri che la spada di Damocle sia stata posta soltanto sopra il calcio nostrano? Nonostante tutti, in modo più o meno esplicito, ritengano di sì, in questo articolo andiamo contro corrente e affermiamo l’opposto. Toccando varie tematiche confrontiamo la Serie A con la Premier League, a detta di molti campionato per eccellenza.

SPETTACOLO –
La cultura anglosassone porta a dare al gioco del calcio un’impostazione quasi rugbystica, basata sul fisico e molto poco sulle individualità dei singoli: non a caso il classico modulo inglese per eccellenza è sempre stato il 4-4-2, formazione in cui i numeri dieci, i playmaker e i trequartisti non trovano spazio. All’estremo opposto invece possiamo citare la Liga spagnola dove troviamo per lo più la giocata del fenomeno in mezzo a squadre tatticamente impreparate. Per parlare di spettacolo dovremmo trovarci in una situazione intermedia, fra la forza fisica e la classe. E la Premier come detto presenta delle lacune da questo punto di vista. In Italia perfino squadre di medio-bassa classifica amano avere in rosa elementi bravi con i piedi (e non solo preparati atleticamente). Proprio per questo il campionato inglese acquista sì importanza dal punto di vista della competitività ma perde molto da quello dell’estetica intesa come giocate sopraffine e talento individuale.

SOLD OUT – In Italia gli stadi sono sempre vuoti in Premier no. Perfetto ma ci sono delle obiezioni da fare: la capienza di un impianto italiano, di solito, è più grande rispetto a quella di uno inglese. Riempire i 45.522 posti dell’Anfield Road (Liverpool) o i 41.837 dello Stamford Bridge (Chelsea), visto il blasone delle squadre citate non è certo un’impresa. Lo è un po’ di più pienare il Luigi Ferraris di Genova (capienza di quasi 37.000 spettatori) per non parlare del San Nicola di Bari dove vi sono addirittura 58.270 posti (!). Possiamo continuare con i 42.160 del Bentegodi di Verona, dove difficilmente Chievo e Hellas Verona fanno il pienone, o citando i 38.279 del Dall’Ara di Bologna. Forse se ad avere 40 mila posti fossero Milan e Roma allora ci sarebbe sempre il tutto esaurito proprio come nell’amata Premier. Si veda il caso dello Juventus Stadium di Torino.

COSTO BIGLIETTO – Collegato al pienone c’è anche la variabile “costo del biglietto”. Un ingresso per un match di Premier costa l’ira di Dio: difficilmente troverete qualcosa sotto i 60 euro per una partita ordinaria. Se si parla di super sfida allora il costo lievita alle stelle. Per gli abbonamenti poi ci sono stadi in cui l’annuale arriva a superare i 1000 euro. In Italia i tifosi si lamentano se in certi settori il prezzo arriva intorno ai 30 euro (come successo in occasione di Inter-Chievo per il secondo anello). Eppure questi benedetti stadi britannici sono sempre pieni. Il motivo? Non c’è fidelizzazione, di giornata in giornata c’è un ricambio continuo con un pubblico sempre diverso dove non sarà sempre e comunque lo stesso a pagare la cifra ogni week end. Ma il tifoso appassionato che segue ovunque la propria squadra dov’è finito? Sparito assieme alla passione per lasciare spazio al marketing. Un paragone economico diverso fra due paesi il cui confronto è difficile da fare: Euro da una parte e Sterlina dall’altra influiscono enormemente il potere d’acquisto delle persone.

PUNTARE SULL’ESTERO – I numeri dicono che in Premier ci sia soltanto il 31,45% di giocatori non stranieri ovvero 161. Le squadre che utilizzano più inglesi sono West Ham, Norwich City e Southampton (11 elementi) e Cardiff City (10). Le prime big che incontriamo sono Manchester United, Tottenham e Liverpool a quota nove. Il 47,61% dei giocatori che militano in Serie A sono italiani (229). Tutto questo si riallaccia al primo punto trattato: il campionato inglese non sfrutta quello che ha in casa ma si appoggia su risorse esterne. E’ tutto consentito, per carità, però è una bellezza costruita e non innata.

SQUADRE – Più club lottano per il titolo quindi la Premier è straordinaria, in Italia ci sono solo le solite big poi un abisso quindi la Serie A è scadente. Sicuramente è così. Deve andare così. Visti gli introiti delle varie società inglesi c’è il modo di competere per tutte. Non è un miracolo calcistico ma solo il frutto di costosi investimenti. Se un ricco sceicco diventasse proprietario del Bologna o del Chievo, per dire due nomi, gli equilibri della Serie A sarebbero modificati artificialmente. E’ questo il punto cruciale: in Inghilterra lo spettacolo è tutto un artificio creato, programmato e basato su ricchezze estere. Con queste possibilità pure la Serie A sarebbe così come la tanto acclamata Premier League. Il contesto di ogni paese permette un certo tipo di gioco, un’identità calcistica ben precisa con squadre storicamente più vincenti di altre. La bravura sta nel costruirsi da soli e non di vivere di luce riflessa. Invece di spalare immondizia sul nostro campionato, forse sarebbe meglio apprezzarlo per quello che era e ciò che sarà, magari aiutandolo nel presente con interventi concreti e non con le solite lamentele da finti intellettuali.

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